Welfare in piattaforma collaborativa

Welfare in piattaforma collaborativa

di Flaviano Zandonai

Neanche il tempo di separare il grano dall’oglio distinguendo la sharing economy “buona” da quella “cattiva” e già sul mercato escono prodotti formativi che evocano il welfare “sharing” e addirittura “platform”. Verrebbe facile derubricare il tutto a marketing che strizza l’occhio ad operatori della protezione sociale ormai saturi di contenuti, modelli e approcci tradizionali o precocemente invecchiati, tentando di agganciare il trend del momento. Forse è così, ma fermarsi a questa constatazione soddisfa ben poco una spinta al cambiamento che si palesa in modo sempre più evidente a livello di bisogni (povertà ed esclusione sociale a livelli di guardia), domanda di servizi (sempre meno riconducibile a prestazioni standard) e, non da ultimo, risorse economiche (risparmio privato fin qui inattivo o immesso nel mercato nero).
Ecco quindi che i servizi disegnati con l’ottica dell’economia collaborativa assumono un significato non solo evocativo ma sostanziale. Possono, ad esempio, rafforzare il carattere distribuito del welfare presso i luoghi di vita delle persone (casa, quartiere, paese). Può sembrare scontato, ma in realtà si tratta della principale innovazione degli ultimi decenni, a fronte di un sistema di protezione sociale che è nato con la forma, anche strutturale, dell’istituzione totale. Basti pensare ai grandi manicomi di Stato poi liberati da quello che oggi definiremmo un innovatore disruptor come Franco Basaglia (con il suo mai troppo citato gruppo di collaboratori). Se quindi la sharing economy saprà fluidificare il passaggio tra diversi servizi, ad esempio favorendo la mobilità di persone – utenti, operatori – tra i servizi sparsi sul territorio, non potrà che migliorare la tenuta complessiva di un sistema che, in piena spending review, tende a tagliare proprio i costi di coordinamento rischiando così il ritorno ai modelli verticali del passato. Ma c’è di più. La sharing economy può mettere alla prova la sua natura autenticamente collaborativa puntando ad arricchire il valore di relazione scambiato nei servizi di cura, educazione, inclusione, ovvero il principale elemento che qualifica un sistema di welfare (e, potremmo aggiungere, un sistema di produzione in generale). Questo ulteriore contributo può avvenire allestendo i luoghi nei quali si fa codesign e cogestione dei servizi sociali, rigenerando così funzioni tradizionalmente relegate nel backoffice dei fornitori (progettazione), nei famigerati “tavoli di programmazione” delle policy pubbliche o trincerate dietro la linea del servizio (erogazione). Le proposte di “fab lab dei servizi” di Daniela Selloni e di “community hub” di Claudio Calvaresi sembra vadano in questa direzione, con le piattaforme di sharing economy a infrastrutturare luoghi il cui carattere ibrido riguarda soprattutto la presenza diffusa di modalità di scambio su base (anche) collaborativa.
Può andar bene quindi mettere il “welfare in piattaforma”, ma a una condizione. Che ci si ri-faccia carico anche della “soma”, ovvero della gestione delle relazioni. Non è un passaggio semplice, perché la relazione sottintende apertura, empatia, reciprocità. Elementi che, come ricorda l’economista Luigino Bruni, richiedono, almeno un poco, di metterci a nudo rispetto al nostro interlocutore. Un setting ben diverso dagli scambi anonimi mediati da quella che il premio nobel Alvin Roth chiama “click economy”. Nel passato la soma era completamente a carico delle reti corti familiari (quasi sempre femminili) e delle comunità naturali. Poi, con la modernità, abbiamo trasferito il compito a istituzioni pubbliche che hanno però enfatizzato il carattere prestazionale a scapito di quello relazionale. Oggi, e non solo per necessità legate a carenza di risorse economiche, si tenta di ricomporre un quadro di relazioni anche nelle piattaforme digitali che sia efficace e sostenibile per tutti gli attori coinvolti. Una sfida importante per i promotori, i gestori e per chi governa queste infrastrutture. Che altrimenti avrebbe ben poco senso chiamare “collaborative”.

Flaviano Zandonai è un sociologo e si occupa di organizzazioni nonprofit e d’impresa sociale. Lavora ad Euricse -Istituto europeo di ricerca sull’impresa sociale e cooperativa- e coordina la community di Iris Network che coinvolge imprenditori sociali, ricercatori, operatori nonprofit. Collabora con il magazine Vita e, da poco, ha avviato con Paolo Venturi il blog www.tempi-ibridi.it