
16 Feb Una via italiana alla sharing economy?
Il dibattito sulla sharing economy In Italia è ultimamente sempre più focalizzato sull’analisi delle aziende multinazionali del settore. Si parla di Uber come se fosse un servizio entrato nelle nostre abitudini, mentre ancora gran parte degli italiani non lo conosce, e si discute di lati oscuri della sharing economy quando ancora la maggior parte delle piattaforme fanno fatica a decollare.
Di contro, non fa notizia il fatto che un gruppo nutrito di “esperti” italiani (forse unico al mondo e di cui la prima sharing school, che si è tenuta a Matera lo scorso gennaio, è espressione), sta osservando il fenomeno da diversi punti di vista sperimendone diverse sue applicazioni, e che ci sia, pur con tutti i ritardi del caso, un tessuto sempre più interessante di start up, progetti, iniziative che stanno dando origine a tratti caratteristici della sharing economy italiana, non riconducibili alle esperienze straniere, che mi sembra opportuno, per far crescere consapevolezza, provare a sintetizzare.
1. Gli italiani sono pronti a condividere.
Più della metà degli italiani, il 55%, si dichiara pronto a condividere, una percentuale superiore a tedeschi (46%), spagnoli (53%), francesi (29%) e inglesi (29%). Il tasso di utilizzo delle piattaforme è, invece, al 22% degli italiani che usa internet contro il 25% degli inglesi e il 39% degli americani. Uno scarto dovuto probabilmente alla scarsa diffusione delle forme di pagamento elettroniche, al digital divide e a una certa resistenza all’innovazione, tutti fattori che rendono difficile la crescita delle piattaforme collaborative in Italia.
2. I grandi capitali italiani non investono nella sharing economy.
Solo il 23% delle piattaforme collaborative italiane ha ricevuto un finanziamento da venture capital e, sebbene qualcosa si muova, sono ancora poche le aziende italiane che hanno investito nella sharing economy (alcuni esperimenti interessanti sono stati portati avanti da Telecom che ha lanciato Wedo, piattaforma di crowdfuding, MPS che ha aperto la prima banca in crowdsourcing, Coop che ha finanziato una piattaforma contro lo spreco alimentare). Di contro, negli USA, i venture capitalist hanno finanziato le startup della sharing economy per più di 10 miliardi di dollari e aziende come Google, General Motor, GE investono in maniera significativa nel capitale di diverse società. L’assenza di grandi investitori rende difficoltosa la crescita dei servizi italiani, ma non ha ancora fatto esplodere le contraddizioni legate alla finanziarizzazione della sharing economy di cui spesso si parla sui giornali
3. La diffusione di scambi in crediti e monete complementari.
I crediti sono utilizzati soprattutto nelle piattaforme di baratto, molto diffuse in Italia (rappresentano più di un quarto del totale), mentre per le monete complementari il successo di Sardex ha portato all’apertura del circuito anche in altre regioni italiane. Non c’è dubbio che questa caratteristica possa essere attribuita a una mancanza di liquidità e di credito, a cui la sharing economy consente di dare una risposta in termini di riattivazione economica e sociale.
4. La vocazione sociale dell’economia collaborativa.
Anche se il terzo settore non è il motore che muove l’economia collaborativa, e la maggioranza delle piattaforme non ha una forma giuridica riconducibile al non profit, rispetto agli USA in Italia sembra più forte una certa vocazione sociale dei servizi collaborativi.
Nel nostro paese, infatti, più della metà dei progetti di crowdfunding è di tipo sociale. Tra le piattaforme collaborative italiane ci sono servizi che riprendono su scala digitale servizi tipici del mondo del non profit (banche del tempo o piattaforme contro lo spreco alimentare). Anche nei servizi for profit, è forte l’orientamento alla sharing come canale di riattivazione dei legami sociali, e sempre più attori stanno valutando la promozione di progetti collaborativi nell’ambito del welfare.
5. La dimensione territoriale.
Anche in Italia, come all’estero, si può iniziare a parlare di shareable cities. Le iniziative di Milano, che con la delibera del 19 dicembre 2014 si impegna a far del capoluogo lombardo una “sharing city”, e di Bologna, che ha concluso con successo una campagna di crowdfunding per il rifacimento del portico di San Luca e ha attivato Iperbole, una interessante rete civica, vanno certo in questa direzione.
Ma forse più interessante ancora è la diffusione di progetti nei Comuni di medie dimensioni come Mantova, dove è stato avviato un esperimento di “governance collaborativa”, o Brescia che sta sperimentando la co-progettazione di servizi sociali. A queste esperienze bisogna aggiungere le social street (gruppi informali tra i residenti nella stessa via che si coordinano attraverso Facebook), vero fiore all’occhiello della sharing economy nostrana, nate più di un anno fa a Bologna e oggi più di 360 in tutta Italia. Se a livello internazionale si parla di “shareable cities”, in Italia sembra quindi che si stia assistendo alla nascita di tante “shareable towns”.
Quello che sembra emergere, dunque, è che nonostante gli indubbi ritardi tipici del nostro sistema (digital divide, assenza di grandi investimenti, mancanza di liquidità), in Italia stiamo assistendo alla crescita di un modello collaborativo originale e con solide basi nel nostro vissuto socio-culturale.
L’attenzione al sociale richiama una certa tradizione mutualistico-cooperativa, ma anche una certa cultura contadina, che trovava nella collaborazione un’importante forma di sussistenza. La dimensione territoriale del nostro paese ricca di centri urbani di piccole dimensioni (e dove ancora sopravvive un forte capitale sociale) rende possibile l’attivarsi di forme collaborative diverse ma unite negli obiettivi e nelle logiche.
Sarebbe importante, a questo punto, trovare modi e forme opportune per indirizzare queste iniziative, farle crescere in modo da poter impattare realmente.
Articolo apparso su Che Futuro il 16 febbraio 2015