
24 Feb Sharing economy: è tempo di misurarne l’impatto!
articolo di Davide Arcidiacono
La notorietà e l’enfasi sulla sharing economy ha ormai raggiunto il suo apice, anche nel nostro Paese.
Tuttavia, sempre più il dibattito pubblico sull’economia della condivisione sembra spaccarsi nella nota contrapposizione tra “apocalittici” e “integrati”: da un lato non mancano analisi apologetiche sulle nuove imprese digitali dell’economia della condivisione – si vedano in proposito Gansky; Rifkin, Garner, solo per citarne alcuni; dall’altro si alimentano anche scenari negativi e allarmisti, motivati tanto da contributi di ricerca- come quello di Schor e Fitzmaurice, di Eldman e Luca o di Reich – quanto dai casi giudiziari che mettono sotto accusa il valore generato dalle piattaforme sharing, degradandole a business as usual (Uber e AirBnb tra tutti). È altresì evidente che il mito della disintermediazione e del valore della condivisione sta permeando sempre più le narrative e il marketing delle imprese tradizionali lasciando emergere anche un rischio di “share-washing”, rilevando al contempo anche una straordinaria forza di “contaminazione” del modello imprenditoriale collaborativo.
In quella che anche Neal Gorenflo ha definito come le “Share Wars”, dove si mira a separare la “buona” dalla “cattiva” sharing economy, o la “vera” condivisione da quella “fasulla”, per usare le parole di Belk, il rischio è di impantanarsi in una contrapposizione mistificante e sterile che non aiuta a fare chiarezza e che alimenta la preoccupazione e l’ansia regolativa dei policy maker, che oggi si interrogano se e come bisogna regolare queste nuove forme di scambio economico.
La soluzione a questa divaricazione di posizioni sul tema dell’economia collaborativa non può che risiedere nella costruzione di una “cassetta degli attrezzi” comune volta a sviluppare un processo di analisi “condivisa” dell’impatto socio-economico generato dalla sharing economy. Il tema nonostante la sua evidente utilità , anche al fine di supportare il processo di regolazione in atto, appare tuttavia negletto e in qualche modo sottosviluppato anche nel dibattito internazionale. Le prime analisi sulle cosiddette sharing cities hanno evidenziato una pluralità di approcci e strategie diverse nella promozione del modello dell’economia collaborativa in ambito urbano: modelli fortemente orientati dall’attore pubblico, come Seoul, e modelli invece fortemente bottom-up, come quello milanese, o ibridi, come Amsterdam e San Francisco. Tuttavia, una vera analisi sul diverso impatto “generativo” alimentato da queste strategie plurali manca ancora dall’agenda di ricerca.
Quella della misurazione dell’impatto della sharing economy sembra un’impresa necessaria e indispensabile che finisce con il confrontarsi però con alcune sfide che proviamo qui a elencare:
1) assenza di una definizione comune: l’elusività del termine “sharing” rende assai difficile il lavoro di misurazione. I tentavi di mappatura e le prime indagini esplorative sul tema hanno usato criteri diversamente inclusivi, o più o meno rigorosi rendendo scarsamente comparabili i dati raccolti. Molte delle classificazioni proposte non riescono sempre a rendere conto della ricchezza di tutte le pratiche che ruotano attorno a questo modello di scambio, anche per il suo snodarsi tra on line e off line, tra formale e informale, tra innovazione e tradizione;
2) non schiacciarsi sugli elementi di performance: quando si parla di “valore” della sharing economy, spesso si adotta lo stesso bias che si utilizza nell’osservazione di forme di scambio economico più tradizionali. Ovvero ci si concentra sul valore di mercato dei servizi che possono essere scambiati, seppur queste cifre spesso appaiono contraddittorie, a volte persino fantasiose, gonfiate o sminuite a seconda se a parlarne siano sostenitori o detrattori dell’economia collaborativa; in secondo luogo, l’altro parametro, spesso citato, è rappresentato dall’ampiezza della base clienti o dei prospects interessati a questa nuova modalità di fruizione di un prodotto/servizio. Guardare solo a questi indicatori significa degradare in automatico il concreto valore e le reali potenzialità di queste esperienze imprenditoriali. Ragionare in termini di giro d’affari attuale o persino di quote di mercato sarebbe alquanto prematuro, poiché si tratterebbe comunque di modello emergente alla ricerca di una sua massa critica;
3) valorizzare le differenziazioni socio-istituzionali: valutare le opportunità di successo ed espansione dell’economia collaborativa significa guardare in maniera quali-quantitativa ai fattori socio-istituzionali e alle caratteristiche evolutive e peculiari degli eco-sistemi innovativi dei singoli contesti, individuando quei driver che in qualche modo possono influenzare la crescita e la sostenibilità di queste iniziative imprenditoriali tra convergenza e differenziazione;
4) individuare dimensioni che includano la sfera “politica”: alcuni tentativi di misurazione di impatto dell’economia collaborativa partono dalla considerazione che questa rappresenta una delle opportunità più concrete nel perseguimento di un modello di sviluppo orientato alla sostenibilità (si veda Heinrichs, 2013). Tuttavia, la proposta di basare la misurazione d’impatto sulle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile (economica, ambientale e sociale) appare problematica per due ordini di ragioni: il concetto di sviluppo sostenibile stenta ancora oggi a trovare misure affidabili e condivise all’interno della comunità scientifica (si veda Montiel e Delgado-Ceballos, 2014), mentre trascura aree d’impatto come quella politica, ovvero gli effetti in termini di regolazione, apertura e co-produzione nella sfera pubblica, in particolare in tema dei beni comuni.
Concludendo, la scelta di un modello regolativo sulla sharing, oggi al centro dell’agenda politica a livello nazionale ed europeo, non può prescindere da un’adeguata comprensione del fenomeno. In particolare, bisogna evitare il rischio di una regolazione “coercitiva”, inadeguata e controproducente, capace solo di generare vincoli poco sostenibili in chi vuole intraprendere e innovare nell’economia collaborativa senza garantire tutele efficaci per gli utilizzatori-produttori.
Davide Arcidiacono
Ricercatore in sociologia economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano. Si occupa di modelli di regolazione, social innovation e consumi sostenibili. Ha scritto il libro “Consumatori attivi. Scelte d’acquisto e partecipazione per una nuova etica economica”, edito Franco Angeli.