Piattaforme in cerca di un pubblico

Piattaforme in cerca di un pubblico

I servizi collaborativi italiani crescono ma non senza difficoltà. E’ quanto emerge da una ricerca che verrà presentata il prossimo 1 dicembre a Sharitaly, il primo convegno in Italia interamente dedicato alla sharing economy che quest’anno si terrà a Roma presso le aule di Montecitorio. La ricerca, curata da Collaboriamo.org, piattaforma di contenuti e servizi per la sharing economy, in partnership con Phd Media, ha preso in esame tutte le piattaforme collaborative che, replicando il modello di Airbnb o Blablacar, mettono direttamente in contatto le persone, promuovendo lo sfruttamento a pieno delle risorse attraverso l’affitto, la condivisione, lo scambio e la vendita (solo per l’usato) di beni, competenze, tempo, denaro, spazio. Non rientrano all’interno di questa fenomenologia, quindi, servizi come Car2go e Enjoy perché non sono peer2peer, ma è l’azienda che affitta ai cittadini i propri beni, e neanche Uber Black (il servizio di traporto cittadino che utilizza autisti Ncc) perché non mette in contatto privati con privati, ma cittadini con una categoria specifica di professionisti. Di contro fa parte delle piattaforme collaborative considerate Uber Pop, il servizio lanciato ad aprile a Milano che permette a privati in possesso di autovetture di mettersi a disposizione di cittadini per muoversi in città.

Secondo questa definizione, quindi, le piattaforme collaborative che operano in Italia sono 138, divise in 11 diversi ambiti, tra i quali si segnala il crowdfunding (che conta ben il 30% delle piattaforme), i servizi dedicati allo scambio o al noleggio di beni di consumo (20%), i trasporti (12%) che comprendono servizi di condivisione posti auto in città o su lunghe tratte. Molto interessato alla sharing economy anche il settore del turismo che con il 10% di aziende mostra un sistema variegato di servizi, che comprende piattaforme che permettono ai privati di affittare o scambiare la propria abitazione per brevi periodi (9 in Italia) e quelle che facilitano l’incontro di persone del posto con viaggiatori, ai quali si propongono visite personalizzate e alternative dei luoghi.

La distinzione in settori diversi prova che siamo di fronte a un nuovo modello di servizio, che ben si adatta a diversi ambiti, ma anche che il settore mostra cenni di maturità, come rivelano anche altri dati della ricerca: il 93% riconduce il proprio servizio all’interno della sharing economy, mentre solo un anno fa molte piattaforme non conoscevano neanche il significato di economia della condivisione; il 68% delle aziende collaborative italiane, inoltre, è registrato come Srl, che significa assunzione di costi e responsabilità. Alcuni servizi collaborativi, infine, crescono raggiungendo numeri interessanti: Sardex, piattaforma di scambio di beni b2b, per esempio, nel 2013 ha raggiunto un volume di scambi pari a 24 milioni puntando, quest’anno, ai 36 milioni. Fubles, servizio che facilita l’organizzazione di partite di calcetto, conta una community di 430mila persone e più di 115mila partite giocate; Gnammo, che permette a cuochi non professionisti di preparare cene per privati cittadini ha raggiunto 20mila utenti, così come Timerepublik, banca del tempo digitale, e Reoose, piattaforma di baratto. Numeri non ancora sufficienti per far decollare i servizi ma che iniziano a mostrare una certa consistenza e solidità.

L’offerta, tuttavia, rimane di gran lunga superiore alla domanda e, nonostante l’ultimo il Rapporto Coop 2014 rilevi che la predisposizione a condividere degli italiani è superiore anche a quella di altri paesi d’Europa, il 68% delle piattaforme non supera i 5000 utenti.

Raggiungere quella massa critica necessaria ad innescare un circolo virtuoso rimane, quindi, il problema principale delle piattaforme collaborative italiane. I servizi collaborativi, infatti, per funzionare hanno bisogno di volumi elevati, in modo da riuscire a soddisfare la domanda ed invogliarla a tornare sulla piattaforma.
Senza un numero sufficiente di beni, il visitatore non trova quello che cerca e rimanendo scoraggiato dalla poca offerta difficilmente ritorna sulla piattaforma. La difficoltà a raggiungere massa critica è riconducibile a diversi fattori.
Il primo è intrinseco al modello di servizio stesso. Collaborare fra sconosciuti costa fatica, determina una certa propensione al cambiamento che non tutti possiedono o hanno desiderio di intraprendere, a meno di riconoscere vantaggi chiari e notevolmente superiori alle paure – spesso inconsce – che l’incontro con estranei produce. La tecnologia aiuta fino ad un certo punto. Se da un lato mette in contatto con la parte di popolazione più protesa alla sperimentazione e all’esplorazione di novità, dall’altro limita l’ingresso a tutte quelle persone che non mostrano dimestichezza con internet o che, molte in Italia, manifestano una certa ritrosia verso i sistemi di pagamento online.
Nella maggior parte dei casi, inoltre, gli stessi servizi non hanno una strategia per raggiungere massa critica. Sono spesso concentrati nel costruire la piattaforma, sottovalutando tutta la fase successiva alla messa online, come se fosse sufficiente pubblicare il servizio per renderlo realmente attivo.

Per far fronte a queste difficoltà e continuare a crescere il 50% delle piattaforme intervistate afferma di aver bisogno di aiuti finanziari, mentre il 29% ritiene importante entrare in contatto con un pubblico più ampio e in particolare con aziende tradizionali. Il 42% delle piattaforme, infatti, sarebbe disposto a trovare forme di collaborazione con grandi marchi e il 37% a valutare possibili partnership. L’opportunità è ghiotta per entrambi. Le aziende potrebbero trovare in queste piattaforme il modo di offrire nuovi servizi e di coinvolgere un cittadino sempre più consapevole e desideroso di nuove esperienze. Le piattaforme collaborative, di contro, potrebbero far leva sul bacino di utenti delle grandi aziende e anche sulle loro risorse finanziarie e organizzative. Insomma il dado è tratto. I servizi collaborativi lanciano la sfida, si vedrà nei prossimi aggiornamenti della ricerca se le aziende tradizionali saranno capaci di coglierla.

Articolo apparso su Nova24, il Sole 24 ore, 30 novembre 2014