
20 Giu Perchè noi che facciamo innovazione, oggi, stiamo in realtà facendo politica
In uno degli ultimi incontri a cui ho partecipato, in occasione del Festival dell’economia di Trento, mi è stato chiesto se credessi di fare politica, almeno a livello locale, per l’attività che sto svolgendo con Collaboriamo. Una questione sulla quale stavo riflettendo proprio in quei giorni ma che, fino a quel momento, non avevo ancora messo bene a fuoco. Fortunatamente non ero la prima a dover rispondere, così ho avuto modo di ripensare agli impegni delle ultime due settimane.
Un incontro con il ministro Madia in occasione del convegno di apertura di FORUM PA 2014 lo scorso 27 maggio, una riunione a Palazzo Chigi con Mauro Bonaretti (promossa da FORUM PA nelle settimane precedenti), una lettera aperta a Giuliano Pisapia, una mail all’assessore Maran sulla questione Uber; il lancio di uno sportello del Comune di Milano dedicato ai giovani e alla sharing economy.
Fino a quel momento non avevo mai avuto contatti così continui con le amministrazioni. Che cosa stava succedendo? Cambiati loro o cambiata io? Un po’ tutte e due, forse, io probabilmente avevo qualcosa da dire e le istituzioni (almeno parte di esse) erano disponibili ad ascoltare (mettere in pratica, poi, è un’altra questione). Così, arrivato il mio turno, ho risposto alla domanda in maniera affermativa: “Sì probabilmente sto facendo politica senza accorgermene e, sicuramente, non sono neanche l’unica.”
Mi sono tornate in mente, infatti, i tanti startupper up incontrati in questi due anni di attività e tutte le volte che ho sentito ripetere frasi come: “ho lasciato il lavoro perché voglio fare qualcosa di più utile per la società”; “non ne potevo più di lavorare otto ore in un ufficio, mi sembrava di sprecare il mio tempo”; “vorrei provare a vivere una vita più sostenibile”. Ritornelli ai quali, ormai, mi sono abituata, ma che sottintendono un desiderio di cambiamento e di influire in questa trasformazione. E a chiederlo non sono solo i giovani, ma molto spesso i “famigerati” quarantenni, quelli che non hanno avuto la possibilità di credere in qualcosa, perché cresciuti nel periodo del riflusso e del consumismo, e che hanno capito solo ora che il mondo in cui sono diventati grandi e in cui credevano di vivere, non esiste più: uomini che si rimettono in gioco, donne (tante e bravissime) che vogliono conciliare casa e lavoro.
La mia inconsapevolezza, forse ingenua, mi sembra però facile da giustificare. Come parte della generazione dei quarantenni, la mia idea della politica si rifà al liceo: un partito in cui inquadrarsi; un modo di procedere verticistico (qualcuno -sempre molto lontano e poco ben definito – lanciava i temi, i modi e gli strumenti sui quali poi noi della “base” dovevamo lavorare); un linguaggio codificato; delle forme di proteste ben definite (manifestazione, assemblea, picchetto, ecc). Oggi tutto questo produce, a seconda dell’impegno trascorso, solo un senso di rabbia o tenerezza, ma per il resto è morto e sepolto. Almeno nella mente di tutti quei cittadini che trascorrono le sere a migliorare la propria social street, a lavorare alla propria startup, di tutti gli artigiani digitali, dei nuovi contadini o di tutti coloro che lavorano negli incubatori, nei coworking, nei servizi collaborativi, e che, in generale, fanno innovazione sociale.
Cittadini in movimento, che si impegnano per cambiare, che si incontrano per discutere e raccontare e che, a mio parere, stanno facendo politica, almeno se con questa parola, si intende occuparsi del bene di tutti; solo che, lo fanno in un modo assolutamente nuovo.
1) Nessun partito, ma un movimento diffuso che si basa, però, su un sistema valoriale condiviso (più rispetto per l’ambiente, più coesione sociale, più equilibrio economico, più tempo libero, ecc).
2) Nessun ordine dall’alto verso il basso, ma una rete orizzontale. Ogni nodo si muove in autonomia, secondo regole e tempi che gli sono propri, ma comunica e si incontra con altri nodi seguendo temi e proposte che, anche grazie a internet, circolano e crescono (anche se sul far rete si deve lavorare ancora molto).
3) Nessun linguaggio codificato, ma tanti linguaggi diversi che si capiscono su alcuni temi comuni, pur mantenendo le proprie specificità.
4) Nessuna forma di protesta. Non si protesta ma si lavora. Giorno dopo giorno è questa la vera protesta: proposte, azioni, nuovi servizi.
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