
04 Ago Milano Sharing City: cinque anni di politiche pubbliche raccontati da Renato Galliano.
Intervista di Monica Bernardi e Christian Iaione.
Il termine Sharing Economy è ormai entrato a far parte del linguaggio comune, i dibattiti e le riflessioni su questo tema sono in continuo aumento e molti esperti hanno iniziato ad analizzarne caratteristiche, impatti, effetti ed evoluzioni. Il tessuto urbano è il principale luogo di sperimentazione per le pratiche di condivisione (Agyeman, 2014) e già molti si sono attivati in questo ambito segnalando esempi di città e contesti urbani che hanno avviato sperimentazioni di politiche legate alla sharing economy. Con quest’articolo sul caso di Milano Sharing City apriamo una raccolta di articoli co-prodotti da LabGov e Shareable con lo scopo di approfondire la conoscenza di alcuni casi di politiche pubbliche che promuovono la sharing economy in ambito Italiano ed Europeo. A Milano abbiamo avuto l’opportunità di parlare direttamente con uno degli attori istituzionali che giocano un ruolo chiave nel processo: Renato Galliano, Direttore del settore Innovazione Economica, Università e Smart City e supervisore del progetto Milano Sharing City, parte del programma Smart City.
-Come è nato il progetto Milano Sharing City?Quale processo ha portato Milano ad includere la tematica della Sharing Economy nell’agenda governativa della città?
La Divisione Smart City ha sempre nutrito un forte interesse nei confronti dei processi innovativi, in particolare per quanto riguarda il contesto urbano in un periodo come quello attuale, in cui è in corso un cambio di paradigma economico. Il nostro interesse per l’innovazione e per i nuovi fenomeni socio- economici ci ha portato a guardare alla sharing economy come in passato abbiamo fatto con altri aspetti, tra cui le nuove produzioni in spazi innovativi come il co-working, l’ambito dell’open innovation e le relazioni tra il mondo delle startup e l’industria tradizionale. Dagli inizi del 2014 ci siamo concentrati sulla sharing economy: era evidente che aveva le potenzialità per diventare un fenomeno importante da vari punti di vista e quindi abbiamo deciso di accompagnarne lo sviluppo. In città esistevano già diversi attori che inziavano a avevano iniziato ad occuparsi di questo tema, da punti di vista diversi, come Sharexpo e Sharitaly. Quest’ultimo ha aperto la riflessione sui flussi da gestire durante Expo e sul potenziale della sharing economy proprio nel gestire il carico extra che l’esposizione avrebbe portato a Milano. Abbiamo avviato un dialogo aperto e collaborativo con tutti gli attori coinvolti per conoscere i loro bisogni, obiettivi e problemi. Questo metodo, basato su una fase di ascolto, seguita da una fase partecipativa e da un’ulteriore fase finale di delivery delle politiche pubbliche, è stato adottato anche nel caso di altre politiche: ad esempio nel macro-contesto del tema Smart City, che ha coinvolto importanti attori urbani come università, imprenditori e terzo settore, e anche in relazione a fenomeni specifici come i coworking. In quest’ultimo caso, l’ascoltare e il ragionare con gli attori coinvolti ci ha permesso di ripensare la nostra idea d’intervento iniziale, che prevedeva la creazione di un coworking pubblico, e di decidere invece di offrire supporto alle strutture già esistenti. Perciò abbiamo sviluppato delle politiche pubbliche ad hoc come il Registro dei Coworking e il sistema di incentivi economici dei vouchers per i coworkers. Lo stesso percorso è stato seguito per il progetto Milano Sharing City: grazie alla fase iniziale di ascolto e alla fase partecipativa abbiamo collaborato alla redazione di una bozza sull’argomento, basata su una consultazione pubblica online. Ognuno ha avuto la possibilità di partecipare e contribuire al documento, dando raccomandazioni e suggerendo priorità. Analizzando i risultati di questo processo partecipativo e grazie al documento finale, prodotto dalla comunità siamo stati in grado di ottenere l’approvazione in Giunta e di pubblicare le linee guida per la Sharing Economy, proponendo una serie di strumenti di collaborazione. Un esempio è il Registro degli Attori della Sharing Economy, diviso in esperti e operatori (ad oggi più di 100), seguito da altre attività emerse durante le consultazioni come la piattaforma di crowdfunding civico, uno spazio fisico dove coltivare la cultura dell’economia collaborativa (Co-Hub), una call per startups impegnate nell’ambito della sharing economy attraverso il nostro incubatore di innovazione sociale, FabriQ. È importante sottolineare che il lavoro si è svolto su due livelli: a livello locale, come ho spiegato, ma anche ad un livello più alto, entrando in contatto con il Comitato delle Regioni che stava lavorando all’Opinione sulla sharing economy a livello europeo e con l’Intergruppo Parlamentare per l’Innovazione, Forum PA e ANCI a livello nazionale. Sono stati coinvolti anche alcuni operatori internazionali come AirBnb, per definire un accordo specifico. Nonostante ciò, ritengo che le politiche pubbliche non possano realmente avere l’ambizione di costringere la sharing economy in rigide cornici di regolazione, poiché questa risponde a un bisogno reale, sociale o economico, che va al di là delle politiche adottate a livello locale, nazionale o
-Che cosa accomuna le diverse politiche che vanno sotto il nome di sharing economy?
Il progetto Sharing City è stato inserito all’interno del più grande processo della Smart City. Quest’ultimo è una politica pubblica trans-disciplinare con un mandato di coordinamento piuttosto che di realizzazione. I progetti realizzati nel processo della Smart City sono poi sviluppati da gruppi di specialisti. Il tema della Smart City è trattato in una dimensione meno tecnologica più concentrata sulla prospettiva dei cittadini, che guarda a una Human Smart City, all’interno della quale la sharing economy rappresenta uno strumento per migliorare la qualità della vita di imprese e cittadini. Visto che il mandato è di coordinamento, è essenziale che i diversi gruppi dialoghino e lavorino assieme. Il vero problema non è legato al contenuto dei progetti ma al metodo di lavoro tradizionale della Pubblica Amministrazione che segue un approccio a “silos”. Superare questa mentalità non è semplice, ma a Milano l’intero processo della Smart City è stato condotto in maniera orizzontale, analizzando internamente i progetti della città con un approccio multi-obiettivo.
-Quali sono le maggiori difficoltà che avete incontrato nel processo di creazione della politica di Sharing?
Le maggiori difficoltà non dipendono dalla città in sé, ma dal fenomeno. La prima problematica è quella della regolamentazione delle nuove attività non pianificate che vanno a toccare interessi aziendali creatisi nel corso di decenni. Per questa ragione abbiamo deciso di lavorare non solo a livello locale, poiché gli accordi regolatori dipendono dal livello nazionale o europeo. Un’altra difficoltà deriva dall’estrema diversificazione esistente tra gli attori della sharing economy, dalle corporazioni multinazionali dotate di piattaforme tecnologiche internazionali alle esperienze di comunità, come le Social Streets e le piattaforme non economiche di scambio di prodotti e servizi. Si hanno livelli differenti, con attori differenti che mettono in campo competenze, abilità, percorsi e potere economico differenti, e può capitare che essi stessi non si riconoscano come parte dello stesso fenomeno. L’approccio deve essere diverso e deve basarsi su caratteristiche e linguaggi specifici. Al contrario, i feedback dei cittadini sono stati eccellenti e l’intervento della Pubblica Amministrazione è stato percepito come positivo e non invasivo, come una relazione di accompagnamento. La difficoltà che stiamo affrontando attualmente è quella del passaggio dal livello della città a quello metropolitano, che non è ancora operativo. Ci piacerebbe per esempio che il Registro assumesse una dimensione metropolitana per intercettare formalmente attori ed esperienze che si sviluppano fuori dalla città.
-Quali sono secondo lei i progetti che stanno avendo maggior successo?
In primo luogo il Comune è intervenuto più a livello di amministrazione che a livello di progetti. Siamo in contatto con i progetti e le start up selezionati attraverso una call e incubati a FabriQ: 15 progetti di innovazione sociale di alto livello, di cui solo due stanno affrontando delle difficoltà. I progetti implementati dagli attori del Registro non sono sotto il nostro controllo e non abbiamo diretta competenza sulla loro supervisione. Le esperienze di comunità, come le Social Street, dopo una normale difficile fase di inizio, stanno avendo successo a livello locale e coinvolgono un numero crescente di cittadini. Le grandi piattaforme, come AirBnb, possono contare sull’effetto dell’Esposizione Internazionale e stanno prosperando in città. Per alcuni progetti, le difficoltà sono legate a una serie di obblighi introdotti per rispondere ad alcuni bisogni locali (tasse per l’utilizzo di terreni pubblici, tasse sul marketing, etc.). Per quanto riguarda i progetti avviati direttamente dal Comune di Milano, il crowdfunding civico sta avendo risultati positivi: abbiamo deciso di selezionare la piattaforma, Eppela, attraverso una call pubblica anziché crearne una nostra, e al momento stiamo valutando i progetti ricevuti attraverso la call.
-Il progetto Sharing City sta realmente incoraggiando partecipazione ed inclusione?
Per quanto riguarda la partecipazione sì, i processi avviati la stanno facilitando, in quanto si tratta di un tema di interesse per i cittadini, o per una parte di essi, quella che si muove, ragiona e lavora sui bisogni locali. Questi bisogni possono essere di natura economica o legati alla costruzione di comunità; i primi possono produrre reddito per alcuni o possono favorire il risparmio, generando in entrambi i casi un valore attraente per le persone; gli altri, facilitando la creazione di relazioni all’interno della comunità, coinvolgono gli abitanti nei processi partecipativi. Ad esempio il Bilancio Partecipativo, con un milione di euro per ognuna delle nove zone della città, e l’approccio partecipativo in sé, stanno chiaramente rafforzando questo aspetto.
L’inclusione va verificata controllando il contenuto dei progetti: per alcuni di essi l’obiettivo principale è proprio l’inclusione di soggetti vulnerabili, mentre altri hanno obbiettivi trasversali. In generale il tema dell’inclusione è declinato più in termini innovazione sociale, perciò anche i progetti di impresa sociale, che puntano a risolvere problemi sociali e favorire l’integrazione, sono in grado di ridurre l’esclusione sociale. Un esempio può essere il FabLab che aprirà presto in via D’Azeglio: nella stessa call abbiamo richiesto la capacità di integrare il vicinato, la città e le persone che lavorano in quell’area e nonostante l’obiettivo principale non fosse l’inclusione il progetto sembra avere tutte le caratteristiche per favorirla e includere associazioni, terzo settore, scuole, altri FabLabs etc., in una logica di integrazione profonda. Altri progetti, come NEET (indirizzato a giovani non impegnati nell’educazione, nel lavoro o nell’apprendistato) o OpenCare, possono contare sulla partecipazione attiva dei FabLab registrati a livello comunale, ma con un preciso obiettivo di inclusione di specifici gruppi di cittadini.
-La dimensione della governance è fondamentale. Il coinvolgimento di differenti attori sta creando nuove sinergie e dinamiche senza precedenti. Quali nuove relazioni e collaborazioni sono state stabilite attraverso il progetto?
I principali strumenti di governance che usiamo sono le call pubbliche e il Registro, strumenti disegnati per essere inclusivi, poiché la loro caratteristica principale è la capacità di lasciar emergere un fenomeno invece che selezionare o valutare gli attori che sono parte del fenomeno. Per esempio, non esistono criteri di valutazione dell’attività prevista dai singoli soggetti per includerli nel Registro, ma solo criteri volti a far emergere il fenomeno; il Registro è pubblico e presenta la descrizione di ogni attore, che poi noi provvediamo a contattare per domande specifiche, creando così nuove connessioni e relazioni. Numerose relazioni stanno emergendo grazie allo strumento della call che ci permette di entrare in contatto con soggetti interessati al tema, attraverso progetti di comunità o anche direttamente, come nel caso di Airbnb e del percorso che ha portato ad una convenzione. Il bando per lo spazio CO-Hub, quello per la piattaforma di crowdfunding, per l’incubatore FabriQ, etc., sono tutti importanti strumenti di governance che hanno contribuito ad inaugurare una nuova serie di relazioni.
-Secondo lei, quali sono i grandi attori dimenticati? Ci sono dei soggetti non ancora coinvolti nel processo che dovrebbero essere inclusi?
L’intero mondo finanziario tradizionale non è ancora coinvolto in questo processo. Il motivo è, secondo me, che le regole interne non permettono alle istituzioni finanziarie di cambiare ed adattarsi velocemente e perciò di seguire l’evoluzione di un fenomeno economico caratterizzato da una grande velocità. Questo concerne non solo la sharing economy ma anche l’intera discussione sulle smart city: le banche non sono in grado di finanziare progetti smart city salvo che essi non si concentrino su interventi molto specifici, come progetti legati alla questione energetica. In alcuni casi le banche non sanno valutare il mercato delle nuove piattaforme se queste generano dei bassi ritorni economici (come le piattaforme di scambio di beni). Paradossalmente il mercato azionario può essere più abile nello stabilire il valore di queste piattaforme, poiché non prende in considerazione solo il budget ma anche le potenzialità per lo sviluppo, il coinvolgimento di altri attori, e molto altro. Comunque ad un certo punto il coinvolgimento del mondo finanziario diventerà necessario, poiché il finanziamento di queste iniziative non potrà avere successo se lasciato nelle mani di famiglie ad amici, a meno che queste famiglie si trasformino in piccole banche e il mondo dei prestiti peer to peer non cresca. Alcune possibilità si stanno aprendo.
-Quali sono i passi che la città dovrà compiere in futuro?
Dopo aver lavorato sull’emergere del fenomeno e sul dialogo e la creazione di accordi con i nuovi attori, l’obiettivo per i prossimi cinque anni dovrebbe essere, secondo me, la creazione di strutture concrete e flessibili all’interno delle quali l’amministrazione possa dialogare direttamente con gli altri attori che rappresentano l’avanguardia dell’innovazione. A mio avviso, Milano dovrebbe dotarsi di un’agenzia che si occupi di innovazione in ogni sua forma, amministrativa, tecnologica e sociale, capace di favorire il posizionamento della città sul tema dell’innovazione a livello internazionale e in grado di instaurare nuove relazioni e partenariati. Sarebbe interessante identificare un attore guidato dall’amministrazione dell’area metropolitana che sia partner dei diversi comuni, la Camera di Commercio, le università e così via, e che possa aggregare tutti i diversi attori in un unico soggetto/contenitore capace di promuovere l’innovazione ad ogni livello.