Maggiori garanzie e tutele per i freelance della sharing economy

Maggiori garanzie e tutele per i freelance della sharing economy

Quando si parla di sharing economy è sempre bene stare attenti ai dettagli, evitando eccessive generalizzazioni. Nei percorsi di accettazione diffusa (e delle annesse regolamentazioni in loco) di queste pratiche, occorre insomma, avere visioni a tutto tondo e prevedere, fra l’altro, delle infrastrutture occupazionali adeguate.

Per esempio, quanto guadagna di fatto chi lavora a tempo pieno come autista (cioè, come contractor) di Uber o Lyft? E quanto mette davvero in tasca, una volta decurtate le spese vive, chi spende la giornata dando una mano in lavoretti vari in città? Possibile garantire il salario minimo o simili tutele in tempi di recessione continua?

Prova a dare delle risposte un’utile analisi della PBS, la rete TV pubblica in USA, dove si segnala fra l’altro una tesi di dottorato (di Denise Cheng, già coinvolta nel Center for Civic Media del MIT) che studia gli effetti concreti della sharing economy sull’occupazione. Se ne ricava, per esempio, che un autista di Uber a tempo pieno può toccare anche 15-25 dollari l’ora lordi, prima cioè di decurtare spese quali assicurazione, benzina, ecc.. Almeno questo valeva prima che Uber riducesse del 20% le tariffe a Washington DC, e quindi, spiega Sandy, che si era licenziata dal suo lavoro fisso ma sottopagato per dedicarsi interamente al ride sharing: «Continuo a dover far fronte alle spese che avevo prima o anche di più. Quel che stanno facendo adesso è un gran macello».

Da notare che nello specifico mancano dati certi, perché queste stesse aziende si guardano bene dal renderli pubblici, temendo altrimenti di favorire la concorrenza, visto il mercato assai ristretto ma assai appetibile. Come per altri ambiti online, il punto è  l’abbondanza di freelance volenterosi ma che devono caricarsi tutte le spese, e il fatto che costoro «non possono usufruire dei benefici dell’impiego fisso: giornate malattia, vacanze pagate, assicurazione salute, fondo pensionamento, sono alcuni dei vantaggi su cui il lavoratore della sharing economy non può certo contare».

In un altro caso citato, Denise ha completato due lavoretti in un giorno, tramite la piattaforma TaskRabbit, che mette in contatto chi ha bisogno e chi offre aiuto un po’ su tutto: «Uno per 30 dollari l’ora, l’altro per 37 l’ora, su cui TaskRabbit trattiene il 20%. In totale, ha intascato 110 dollari, prima però di dedurre spese come benzina e pranzo». Analoga ovviamente la situazione in Italia, come rimarca il resoconto in prima persona di un fresco autista Uber, appena pubblicato su LaStampa.it: «Ieri abbiamo provato quanto sia sfiancante guidare in città per otto o nove ore (e nove corse). Ritrovandoci, alla fine, con 40 euro».

Problematiche queste, a ben vedere, tipiche di ogni settore nuovo e in crescita, ancor più nel dinamismo dell’odierna epoca digitale. E che vanno ben ponderate e affrontate correttamente, senza continuare, necessariamente, a parlare del lato oscuro della sharing economy. E quindi, conclude l’analisi della PBS, nell’evoluzione dell’economia condivisa vanno studiate anche infrastrutture dinamiche a tutela dei “motori dell’ecosistema”, «da forme di contrattazione collettiva basate su nuove entità somiglianti a sindacati o corporazioni, fino alla trasformazione parziale delle piattaforme in cooperative o simili in cui i contractor hanno voce in capitolo». C’è quindi spazio e necessità per crescere su tutti i fronti, in maniera serena e collaborativa.