L’arte di lavorare con gli altri

L’arte di lavorare con gli altri

“QUESTA è la prima settimana di coworking (ambiente di lavoro condiviso), un progetto su cui sto lavorando”, così Brand Neuberg scriveva sul suo blog nell’agosto del 2005. Programmatore della Silicon Valley, Neuberg aveva da poco lasciato il suo lavoro presso una grande società per lanciarsi verso una più libera carriera da freelance. Ma la libertà aveva coinciso con la solitudine: ore ore trascorse a casa a programmare, e per ovviare a questa condizione aveva lanciato Spiral Muse, uno spazio di lavoro condiviso aperto a soli freelance, a cui offriva otto scrivanie, una cucina, una stanza per meditazione e massaggi. L’esperimento non funzionò, dopo un anno Spiral Muse chiuse, ma Neuberg fu il primo ad utilizzare il termine coworking e per questo si fa risalire a lui il primo vero esperimento di ufficio condiviso.

Non che fino a quel momento non esistessero spazi di lavoro in comune fra liberi professionisti, anzi, basta pensare alla formula degli studi associati, ma quello che era già sottointeso nell’esperimento di Neuberg, anche se in uno stato embrionale, non è la semplice condivisione di metri quadri, scrivania, e macchinetta del caffè, ma un nuovo ambiente di lavoro a metà tra l’ufficio tradizionale e la propria abitazione, dove professionisti con competenze anche molto diverse si ritrovano per condividere gli spazi e gli strumenti professionali ma anche per sperimentare, a volte in maniera inconsapevole, un nuovo modello di lavoro basato sullo scambio e sulla collaborazione.

La rivista specialistica Deskmag definisce coworking quegli spazi che offrono a singoli professionisti, ma anche a piccoli gruppi, aree di lavoro aperte e che trovano in questo servizio la loro principale fonte di reddito. Ne ha contati 1.779 in tutto il mondo, una crescita formidabile da quell’agosto del 2005, ma ancora più sorprendente se si pensa che questo numero è quasi raddoppiato nell’ultimo anno (+93%). Ce ne sono 684 negli Stati Uniti, e 729 in the Europa. Nel vecchio continente la Germania è la nazione che ne conta di più (167), seguita da Spagna (114), Gran Bretagna (98) e Italia con 72. Questi spazi si concentrano soprattutto nelle grandi città come Berlino che da sola conta 48 spazi o Londra (39) ma anche nelle nostre città c’è un certo fermento.

“Abbiamo ricevuto numerose richieste per aprire un nostro spazio in diverse città italiane”, spiega Riccarda Zezza ideatrice e fondatrice di piano C, un coworking appena aperto a Milano che oltre ad offrire scrivanie e uffici propone un co-baby, uno spazio con educatrici dove le mamme lavoratrici possono lasciare i propri figli. Una crescita continua che si deve soprattutto a un mercato del lavoro in profonda trasformazione dovuto, fra l’altro, all’aumento costante e continuo del numero dei freelance (negli Stati Uniti ma anche in Europa), ma anche all’emergere di una certa cultura imprenditoriale sociale, e non solo, che trova spesso negli spazi condivisi i suoi principali luoghi di espressione.

Esistono, infatti, diversi modelli di coworking. Ci sono spazi più “tematici” dove c’è una certa barriera di ingresso, come, per esempio Talent Garden, un network italiano che ospita solamente professionisti del marketing e della comunicazione digitale, o Multiverso di Firenze che seleziona giovani professionisti della comunicazione, dell’architettura, dello spettacolo o anche The Hub, a metà tra un incubatore e uno spazio di coworking, che raccoglie solamente freelance o imprenditori che lavorano nel campo dell’innovazione sociale. Di contro Cowo360 di Roma, Toolbox di Torino, Lab121 di Alessandria e anche i grandi esempi internazionali come la Cantine  e la Mutinerie di Parigi, il Betahaus di Berlino, piuttosto che Utopic_US in Spagna, invece, lasciano libera l’entrata, tanto poi la selezione è naturale.

“Non è facile lavorare insieme agli altri”, spiega Aurelio Balestra di Toolbox, “presuppone una certa apertura verso l’altro, il desiderio di comunicare e di mettere a confronto e in condivisione idee e competenze, e non tutti sono disposti a mettersi in gioco”. Che si pongano barriere all’ingresso oppure no, chi abita questi spazi sono quasi sempre giovani con un’età media fra i 28 e i 38 anni (più giovani, in genere, i membri dei coworking internazionali), con un buon titolo di studio e una certa propensione a collaborare. “Quello che segmenta queste persone”, spiega Aurelio Balestra di Toolbox, “è lo stesso modo di approcciare il lavoro”.

In un ufficio tradizionale tutti lavorano per la stessa azienda, competenze simili che operano per raggiungere un fine comune, in uno spazio condiviso, invece, ognuno lavora per sé stesso, ha una propria professionalità e delle specifiche competenze che in maniera naturale entrano in contatto con gli altri e da questo vicinanza nascono scambi ma anche idee, progetti, collaborazioni: “ognuno può essere uno strumento per l’altro”, continua Balestra che non a caso ha chiamato il suo spazio Toolbox, “e ciascuno può diventare per l’altro un collega, un cliente, un tramite”. Così, per esempio, una modella messicana in difficoltà è riuscita ad allestire una sfilata in Via Nazionale a Roma facendo affidamento solamente sui membri del suo coworking, Cowo 360, e sempre in questo spazio, tre compagni di scrivania con competenze complementari hanno deciso di unire le forze e aprire una società. Secondo la rivista Deskmag il 93% dei coworker ha allargato la sua cerchia di contatti sociali da quando ha iniziato a frequentare il suo spazio condiviso, l’86% ha aumentato il suo giro di affari, il 76% che è cresciuta la sua produttività in generale.  

Ma niente può essere lasciato al caso. La comunità, va facilitata, coltivata, e fatta crescere e per questo la disposizione dello spazio è fondamentale. Che sia un ambiente di qualche centinaia di metri quadrati (come per esempio quello di Piano C o Cowo360), o di migliaia come per Toolbox o per i grandi network europei, in tutti gli spazi di coworking quei locali che solitamente in un ufficio tradizionale vengono sacrificati o addirittura mancano, in questi ambienti, invece, vengono valorizzati. La cucina, per esempio, è collocata nel centro dello spazio di Piano C, impossibile non passarci perché divide alcune sale riunioni dalla grande sala condivisa, mentre all’Hub milanese occupa una buona parte dello spazio messo a disposizione degli ospiti.

“Invitiamo sempre i nostri membri ad alzare lo sguardo dalla propria scrivania e a prendersi un caffè”, dice Vita Sgardello di The Hub, “perché spesso è più facile chiudersi nel proprio guscio e lasciarsi prendere dalle proprie scadenze mentre, invece, un caffè con uno sconosciuto apre porte e opportunità fino a quel momento non considerate”. Non basta, tuttavia, una cucina ben organizzata, o uffici e sale riunioni senza porte o separé per fare uno spazio collaborativo. “Siamo una community di professionisti assai diversi”, dice Stefano Borghi di Cowo360, “e per questo bisogna sempre mischiare e ravvivare questo magma altrimenti diventa un centro servizi, non uno spazio di coworking”.

Esistono figure professionali dedicate a gestire un ambiente condiviso che hanno il compito di stare in ascolto delle diverse esigenze dei membri ma anche di agevolare l’incontro e gli scambi, cosa che avviene spesso in piccoli eventi interni come colazioni o pranzi comuni. Questi facilitatori organizzano anche workshop fra i membri, momenti di formazione e giornate di apertura dello spazio verso l’esterno, piuttosto che veri e propri eventi. Cowo360, per esempio, negli ultimi mesi ha ospitato un incontro dedicato alla tecnologia 3D, uno sull’economia della condivisione, uno sul crowdfunding, molto spesso accogliendo ospiti provenienti da altri coworking europei. “Siamo in contatto costante con altri spazi europei”, racconta ancora Borghi, “con loro organizziamo eventi, scambiamo opportunità e a volte anche postazioni di lavoro”.

In questo modo lo spazio collaborativo del coworking si apre verso l’esterno fungendo da impulso e da ricettore di opportunità e trasformandosi in un vero e proprio laboratorio di innovazione. Peccato, però, che sia più facile che questo avvenga con altri spazi europei piuttosto che italiani. Da noi, il panorama è ancora piuttosto destrutturato e gli spazi di coworking fanno fatica ad avere una progettualità comune. Mancano fondi pubblici, aziende e i capitalisti di ventura disposti ad investire negli spazi e nei suoi abitanti  –  come invece avviene all’estero  –  e, pertanto, non ci sono neanche tutti i coworker necessari affinché questi spazi diventino veri e propri centri di propulsione e innovazione: “In Italia manca la cultura del freelance, dell’imprenditore, della possibilità di fallire più volte e ricominciare” spiega ancora Balestra. Gli ambienti di coworking possono diventare delle strutture che facilitano la creazione di questa cultura ma bisogna crederci e investirci, mentre al momento, il più delle volte, si fa fatica a rendere questi spazi  redditizi, almeno sulla piccola dimensione.

Marta Mainieri per Repubblica.it – 28 dicembre 2012