
07 Mar La sharing economy potrebbe regolamentarsi da sola?
Il dibattito sulle necessità di norme che regolamentino la sharing economy è molto accesso. Negli Stati Uniti, sono famosi i casi di Airbnb e dei suoi guai con la città di New York – la battaglia più recente, che approderà in Tribunale, vede Airbnb contestare la richiesta del procuratore generale di New York di fornire i dati sugli host cittadini – così come quelli di Uber , LYFT e RelayRiders, che hanno avuto problemi in numerose città – sempre a New York, ad esempio, RelayRides ha dovuto sospendere il suo servizi perché accusata di non essere in regola dal punto di vista assicurativo, mentre a Chicago un consorzio di tassisti e conducenti ha di recente citato in giudizio la Città con l’accusa di avere permesso l’affermarsi di un “sistema illegale di taxi”.
Tutti questi casi mettono in luce uno dei problemi maggiori legati alla diffusione e all’affermazione della sharing economy: la mancanza di una legislazione specifica per i servizi collaborativi, che per caratteristiche e novità non possono essere regolamentati con le norme applicate all’economia tradizionale.
Secondo Arun Sundararajan, professore alla Leonard N. Stern School of Business della New York University, esperto di sharing economy e tecnologie digitali, in un interessante post pubblicato sul New York Times, la soluzione esiste già ed è quella di delegare parte della regolamentazione direttamente al mercato della sharing economy e alle piattaforme collaborative, mantenendo una sorta di controllo centrale da parte del governo attraverso la creazione di nuovi organismi di autodisciplina, analoghi a quelli che già esistono e operano in altri settori.
Sundararajan sostiene che le leggi e i regolamenti in vigore non siano sbagliati, ma che semplicemente siano stati pensati per modelli di business diversi.
Per questa ragione mal si adattano a questa nuova ondata di micropreneur, che hanno messo in moto un “capitale dormiente” di beni – immobili, auto, oggetti – rendendoli produttivi e capaci di generare un vasto campionario di esperienze di consumo nuove.
È evidente la distanza tra le norme pensate per la vecchia economia – industriale e “analogica” – e i nuovi modelli di business – “peer-to-peer”e digitali -, ma se questa lacuna non verrà colmata presto, si corre il rischio di soffocare la crescita economica e di danneggiare sia le piattaforme sia gli utenti.
La soluzione, però, in parte è già in atto: tutti questi nuovi servizi hanno sviluppato dei meccanismi di auto-controllo molto sofisticati.
Per tornare ad Airbnb, ad esempio, i meccanismi di creazione di fiducia e reputazione tra gli utenti – con sistemi di verifica dell’identità integrati con i profili dei più popolari Social Network, le recensioni e i feed-back che sia chi ospita sia chi viene ospitato pubblica sulla piattaforma- sono parte integrante del servizio stesso e sono un formidabile sistema di auto-regolamentazione.
Esistono poi ulteriori misure di controllo non digitali.
Lyft and Sidecar hanno sviluppato un elaborato protocollo di screening dei fornitori, che probabilmente è stato utilizzato come modello per il regolamento sul ride-sharing introdotto recentemente in California. Airbnb ha un team “fiducia e sicurezza” composto da più di 50 agenti investigativi, guidati da un ex ufficiale dell’intelligence.
Tutto questo non sorprende, perché gli interessi di chi è alla ricerca di un profitto – i servizi collaborativi – e di chi è preposto alla stesura di regolamenti non sono così distanti: favorire gli scambi economici, garantire la fiducia dei consumatori, evitare fallimenti di mercato.
I meccanismi di auto-regolamentazione non sono però da intendersi come una panacea universale, c’è comunque bisogno di un intervento governativo che sovraintenda a tutti quegli aspetti che non vengono presi direttamente in considerazione dal mercato – come, ad esempio, il rischio di congestione.
Per questo va incoraggiata la creazione di una nuova classe di organismi di autocontrollo – già presenti e efficienti in altri settori – che definiscano i sistemi di regolamentazione dei mercati peer-to-peer, con la supervisione , almeno nella fase iniziale, del Governo.
Questi organismi, capaci di monitorare costantemente l’andamento del mercato e di correggere il disallineamento normativo, potrebbero rispondere in modo efficiente alle problematiche e alle difficoltà che via via emergerebbero.
Se vogliamo che l’economia collaborativa cresca e si sviluppi, è quindi giunto il momento di dare maggiore fiducia alle piattaforme collaborative, riconoscendo loro la giusta parte di responsabilità nella regolamentazione.
Per approfondire: “Trusting the ‘Sharing Economy’ to Regulate Itself” by Arun Sundararajan – The New York Times