
11 Mar Il candidato condiviso
Oggi non vi parlo di un servizio, ma di un uomo.
Nella corsa elettorale alla Presidenza degli Stati Uniti gli sfidanti di parte democratica sono due. Hillary Clinton e – il meno famoso – Bernie Sanders, senatore dello stato del Vermont. Vivere da questo lato dell’Oceano Atlantico espone il cittadino a una dose massiccia di dibattiti televisivi che, come spesso accade, potrebbero diluirsi tra retorica politica ed esposizione mediatica. Non questa volta. Mi è capitato di essere testimone di uno dei tanti discorsi tenuti da Sanders nel suo tentativo di scalata alla Casa Bianca e ne sono rimasto impressionato. Ho ascoltato un uomo di settantaquattro anni dire cose che nemmeno i trentenni rampanti Dem europei oserebbero forse pensare. Ho sentito quest’uomo lanciarsi contro il Sistema delle banche, sparare a zero su Wall Street, criticare senza fraintendimenti le guerre post 11/09, essere contro il lobbismo di tutta l’industria energetica tradizionale, dichiare inalienabile il diritto allo studio. Tanto da obbligare i suoi concorrenti ad un continuo aggiornamento delle proprie posizioni rispetto alle sue. La folgorazione mi ha portato ad ascoltare, ogni volta fosse possibile, i suoi speech e a seguire con sorprendente attenzione i confronti testa a testa con la Clinton che sono sempre stati incredibilmente civili, ricchi di contenuto, colmi di rispetto reciproco. Cosa decisamente eccezionale rispetto ai dibattiti tra gli sfidanti Repubblicani dove il livello del discorso quasi mai si è sollevato dalla dimensione delle orecchie, la lunghezza del pene, il riporto dei capelli, qualche muro da costruire. Il tutto in uno stile sempre piu’ simile ai nostri talk-show. Un’altra voce da aggiungere al nostro export a quanto pare.
Il cavallo di battaglia di Sanders nei confronti dell’ex-Segretaria di Stato è uno. Sanders rinfaccia alla Clinton il fatto che la sua campagna sia sostenuta economicamente da un establishment fatto di banche, finanzieri, compagnie petrolifere, società energetiche, eccetera. Dice Sanders: “non metto in dubbio l’onestà della candidata, ma al tempo stesso non posso non avere il dubbio che in qualche modo questi supporter si aspettino di essere ripagati nel caso in cui lei diventasse Presidente”. Lo dice così, diretto, senza nessun giro di parole. Alla fine della frase scattano immancabilmente nell’ordine: un momento di imbarazzo dei presenti, l’applauso fragoroso del pubblico in sala. Il bello è – soprattutto – che Sanders puo’ permettersi di dirlo. Rispetto a tutti gli altri candidati ancora in corsa o già ritiratisi, di qualsiasi colore politico essi siano o fossero, questo uomo minuto, incanutito, figlio di un immigrato polacco ebreo ha messo in piedi la sua campagna contando quasi esclusivamente sulle donazioni dirette dei cittadini: nei soli tre mesi finali del 2015 Sanders è stato in grado di raccogliere ben 33.6 milioni di Dollari.
Partito con budget zero e per questo considerato un buffo outsider piuttosto che un plausibile sfidante, Sanders ha conquistato credibilità, elettori, consensi e soprattutto fondi. Non passa occasione in cui dichiari che il suo budget derivi da donazioni la cui media è di 27 dollari. Ventisette. Qui è tutto pubblico, vedere per credere. Nel solo mese di Gennaio 2016, attraverso il piu’ classico dei sistemi di crowdfunding on line, Sanders ha raccolto piu’ di 20 milioni di dollari che portano il suo budget (alla data in cui scrivo) a 96.3 milioni di dollari, ottenuti attraverso 3.5 milioni di donazioni effettuate da 1.3 milioni di persone. Il che ne fanno forse il primo, vero candidato shared della storia della democrazia Americana.
Non è dunque un caso che sia l’unico candidato capace di attrarre e convincere trasversalmente i millennials, lui il più anziano in corsa, indipendentemente dal ceto e dalla geografia che qui conta non poco. Si tratta di persone abituate ad usare la rete per verificare la veridicità delle informazioni ed effettuare i propri acquisti on-line. Compresa la quota di un candidato a cui credono. Sanders ha vinto in nove stati rispetto ai tredici (alla data) della Clinton, quando nessuno avrebbe scommesso su un solo stato tranne il facile home-run in Vermont. E nonostante alcune campagne mediatiche di discredito basate solo sui numeri (ovvero il numero dei delegati utili per ottenere la nomination decisamente a vantaggio della Clinton, l’unico punto in cui Sanders è attaccabile visto una storia politica coerente e fino ad ora apparentemente a prova di scandalo) il piccolo grande uomo del Vermont non molla.
Molto probabilmente non sarà nominato, troppo forte è la macchina territoriale della Clinton e i suoi legami con le comunità nere e ispaniche frutto del passato a fianco del Presidente Obama. E se anche fosse nominato, molto difficilmente potrebbe vincere la corazzata Repubblicana pronta ad assalirlo sul suo passato (e presente) sinistrorso e anti-establishment. Tuttavia Sanders è la dimostrazione di come la sharing possa essere economy tanto quanto democracy. Le dinamiche sono le stesse, gli strumenti pure e i suoi “clienti” – verosimilmente – anche.
Photo by: Huffington post
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Nicola Palmarini – Dopo la laurea in Scienze politiche alla Cattolica di Milano e i corsi in Comunicazione alla University of Washington di Seattle, Nicola lavora per più di dieci anni nel mondo delle agenzie pubblicitarie. Lancia il brand Tin.it e segue passo dopo passo l’intera comunicazione del marchio Microsoft alla fine degli anni ’90. Entra in IBM nel 2000 all’interno del quale promuovere la creazione di servizi innovativi che si fondano sulla collaborazione, le tecnologie emergenti e i social media. Dal 2015 vive a Boston dove, per IBM Research, e’ responsabile dello sviluppo e della promozione di tecnologie per i disabili e la aging population. E’ autore di “Lavorare e Collaborare?” e di “Boomerang”, entrambi pubblicati da Egea. Scopri di più sull’autore: qui e qui