
16 Apr I coworking alla prova del Coronavirus: il caso di Lab121 di G. Baracco
Come le comunità collaborative possono concorrere allo sviluppo urbano? Come possono supportare i processi di innovazione promossi dagli stakeholder locali pubblici e privati? Con queste domande si apriva nel lontano 2014 la terza edizione di Espresso Coworking, la non conferenza nazionale sui temi del coworking e del lavoro tenutasi a Firenze (città poi a me diventata cara per motivi che nulla hanno a che fare con coworking e affini).
Due domande a cui non venne data una risposta univoca e definitiva, comprensibilmente, ma che aiutarono ciascuno dei presenti a comprendere un po’ meglio la propria vocazione, il proprio ruolo all’interno dell’ecosistema urbano, la funzione sociale e la dimensione politica degli spazi di lavoro condiviso in quel preciso momento storico.
Fast Forward: a 6 anni di distanza il mondo del coworking e il mondo in generale sono radicalmente cambiati: da fenomeno di nicchia, destinato a una parte importante ma tutto sommato residuale della forza lavoro, gli spazi di coworking rappresentano sempre più la normalità (i numeri parlano chiaro: 22.000 spazi di coworking nel mondo stando alla survey promossa da Global Coworking Survey) nel panorama sociale ed economico, mentre il distanziamento sociale imposto dalla diffusione del covid19 ha definitivamente sdoganato lo smartworking come forma di lavoro possibile/auspicabile all’interno di aziende ed enti.
Il tutto in attesa di capire come si andranno a riorganizzare servizi e attività in una società che dovrà fare i conti con una profondissima crisi economica, la necessità di ridefinire rituali e pratiche comunitarie e, non ultimo, convivere con la presenza insidiosa del virus.
In attesa di scoprire i confini di questa nuova “normalità anormale”, le comunità collaborative stanno provando a dare un pezzo di risposta, riposizionandosi nell’emergenza e mettendo a disposizione le proprie competenze e il proprio know how. Un esempio su tutti, nel senso che rappresenta bene gli sforzi delle tante organizzazioni collaborative e che riprende l’incipit del post, è quanto fatto ad Alessandria dalla community di Lab121 (www.lab121.org). Associazione di promozione sociale, una no-profit per il profit, come ama definirsi, Lab121 (coworking, FabLab e promotore di Espresso Coworking) ha messo in campo una reazione a più livelli concettualmente distinti ma intimamente connessi:
Sostenere i membri della community sotto il profilo professionale e personale, attraverso call settimanali e momenti dedicati al confronto e all’ascolto;
Rispondere all’emergenza sanitaria attraverso la raccolta di maschere da sub e la realizzazione tramite stampa 3d di raccordi da destinare all’ospedale cittadino per la terapia sub-intensiva;
Promuovere una survey sull’impatto economico del covid19 di concerto con il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università del Piemonte Orientale;
Sviluppare, di concerto con diverse organizzazioni e gruppi cittadini, strumenti utili alla cittadinanza per convivere con il distanziamento sociale come la piattaforma Covid19Alessandria.help, la prima sviluppata da volontari a livello locale (un portale, ispirato a Covid19italia.help, dove aggregare tutte le informazioni utili al tempo del coronavirus, dalla consegna a domicilio della spesa, ai trasporti locali fino alla segnalazione di situazioni di emergenza).
Quattro livelli di risposta diversi, con target e attività differenti, ma nondimeno accomunati dal coinvolgimento attivo dei membri della community, dall’attivazione di una rete con portatori di interessi (e di conoscenze) del territorio, dall’interlocuzione con i livelli operativi e decisionali istituzionali (Amministrazione Locale e Ospedale in primis). Quattro livelli che meriterebbero un approfondimento ad hoc per ciascuno di essi, cosa complicata per chi scrive e per chi legge.
Giova però sottolineare, riprendendo in un certo senso la domanda iniziale, alcuni elementi di particolare interesse: la resilienza organizzativa che ha permesso all’associazione di riconvertire le attività tradizionali in attività online nel giro di pochissimi giorni; la capacità di apprendimento e autoapprendimento dell’organizzazione stessa, che ne ha assicurato l’autorevolezza all’intero del mondo dell’associazionismo e del Terzo Settore Locale; l’attitudine al problem solving maturata in anni dove la combinazione creativa di asset, competenze e risorse è stato l’unico modo per assicurare la sopravvivenza dell’organizzazione.
Elementi che uniti all’incipiente riflessione sul nuovo uso degli spazi e sulla nuova idea di socialità che sempre più emergerà nei prossimi mesi, ci rivelano la capacità, intuita, decritta e problematizzata da diversi studiosi e practitioner, di un ruolo di possibili avanguardie di queste forme ibride del contemporaneo. Un’avanguardia che per rimanere tale, anche dopo la crisi, dovrà necessariamente trovare/sviluppare nuovi linguaggi e strumenti per collaborare con gli stakeholder locali, sviluppare modelli di business sostenibili, ampliare e nutrire costantemente la propria community, valutare e rendicontare l’impatto realizzato.
Un po’ troppo dite voi? Beh, qualsiasi idea utile sul futuro deve sembrare ridicola (Seconda Legge sul Futuro di Jim Dator).
Giorgio Baracco
Presidente della Cooperativa Proteina, Responsabile Progettazione di Refugees Welcome, storico socio di lab121.