
20 Mar Guida introduttiva al community design: cos’è e come applicarlo
“Ma tu, di cosa ti occupi?”
Quando mi fanno questa domanda solitamente, subito dopo, iniziano a tremarmi le gambe. Vorrei dire, semplicemente, “sono medico, un professore, un giudice o un avvocato”, così tutti dicono ah, si fanno la loro idea e possiamo passare oltre. Invece mi tocca e rispondere: “mi occupo di community design”, e lì inizia il calvario. I più impallidiscono, qualcuno va oltre ma non capisce, altri mi guardano con fare interrogativo, ma non osano dirmi che non sanno cosa sia (forse temono di offendermi) e quasi sempre mi tocca intervenire per toglierli dall’imbarazzo. Quindi sospiro e inizio lo spiegone (che nel tempo ho raffinato procedendo per gradi di approfondimento che via via decido di affrontare a seconda delle smorfie: sorridenti, vado avanti; annoiate – taglio corto).
E siccome proprio in questi giorni ho pubblicato un annuncio di ricerca per un community designer, e molti hanno applicato senza sapere bene di cosa si tratti, ho deciso di mettere lo spiegone per iscritto raccontando in questo post di cosa mi occupo, in modo che serva anche come breve guida introduttiva al community design, utile, spero, per potenziali collaboratori, clienti, curiosi, amici, sconosciuti.
Cos’è il community design? Per chi e per cosa?
Il primo pezzo dello spiegone è una breve presentazione: ho fondato una piccola organizzazione che si chiama Collaboriamo e che aiuta le aziende, le imprese del terzo settore, le amministrazioni a far crescere le proprie community, cioè a sviluppare e valorizzare le relazioni con e tra i propri collaboratori, clienti, soci o cittadini.
A queste prime parole, solitamente, segue un silenzio imbarazzante per cui aggiungo, quasi subito, “provo a spiegarti meglio”. Così racconto che Collaboriamo si occupa di community design, che abbiamo sviluppato un approccio, un metodo e degli strumenti non tanto per progettare relazioni – che non si possono progettare – ma per predisporre il contesto per la nascita e la crescita di relazioni fra gruppi di persone. Capisco che la definizione non chiarisce affatto, ma anzi spaventa e allora mi affetto ad aggiungere: “ti spiego con degli esempi”. Ne segue un cenno del capo il cui sottotesto è: “Ecco brava”.
Dove si applica il community design?
Così, racconto che generalmente abbiamo due tipi di clienti: le imprese “tradizionali” (profit o non profit, grandi e piccole) e le start up (meglio scale up).
Il community design per le aziende tradizionali
Le prime solitamente sperimentano le community come strumenti complementari a servizi o processi tradizionali. Faccio l’esempio di Unipol che da poco ha lanciato la una community interna per far crescere il coinvolgimento dei propri collaboratori; o di Enel che invece ha sviluppato delle community per aggregare colleghi che si occupano di tecnologie avanzate allo scopo di favorire collaborazione e cross-funzionalità; o, infine, Leroy Merlin che da tempo sta lavorando per trasformare i propri clienti in membri di una community.
Il community design per le start up
Un’altra tipologia di nostri clienti è rappresentata da quelle imprese che hanno nel loro core business la community: imprese cioè che senza le community non avrebbero senso di esistere (se chi mi ascolta mostra interesse, allora faccio un atto di presunzione e dico che su questo ho anche scritto un libro). Per esempio Airbnb (e qui il malcapitato solitamente si rilassa e inizia a capire). Con Airbnb, spiego, stiamo realizzando un percorso di formazione per i loro super user, cioè per coloro che all’interno della community si attivano maggiormente. Un altro nostro cliente, invece è Tulou che propone un nuovo modello di abitare che si basa sulla community: per loro abbiamo disegnato tutta la strategia della community: l’identità, i servizi, il modello di governance.
Gli esempi potrebbero anche continuare ma di solito mi fermo in attesa di eventuali domande. A questo punto infatti alcuni abbandonano, fanno finta di aver capito e cambiano discorso; altri invece si entusiasmano e chiedono di in cosa consiste di fatto la nostra consulenza.
Come applicarlo: in cosa consiste una consulenza di community design?

In base alla nostra esperienza abbiamo valutato che i clienti chiedono solitamente tre tipi di intervento di community design:
1. Chiedono di lanciare una community da zero perché non sanno da che parte iniziare.
2. Domandano di aiutarli a far sì che la loro community funzioni come vorrebbero.
3. Chiedono di strutturare la loro community in modo da gestirla al meglio.
Lanciare una community da zero
Chi vuole lanciare una community ha bisogno di capire se ci sono le condizioni per crearla. Il primo passo, solitamente, è fare una parte di ricerca che consiste in interviste qualitative al management e ai potenziali membri della community; interviste quantitative; benchmark, analisi dei dati. Dalla ricerca nasce poi uno scenario che, di fatto, definisce la value proposition della community, i profili degli attori che ne fanno parte e la sua narrazione.
Capire perché la community non funziona e stimolare l’ingaggio
Spesso accade che si lancia una community e poi non si ha la risposta che si vorrebbe. Questo può dipendere da una serie di cose che noi cerchiamo di esplorare a volte attraverso una prima fase di assessment che prevede delle interviste, l’analisi delle conversazioni, l’analisi dei canali di interazione, della content strategy, della governance. Questa fase serve per comprendere dov’è il problema e in che punto si trova del nostro framework.
Ci può essere infatti un problema legato all’identità: ai membri non è chiaro di essere in una community, non sanno cosa possono fare insieme, non sanno che cosa sia una community. Ci potrebbe essere un problema legato all’ingaggio: i contenuti, per esempio, non sono utili alle persone che dovrebbero far parte della community e magari non sono neanche troppo coinvolgenti. Ci può essere, infine, un problema legato alla governance: non c’è un community manager che sa cosa deve fare, oppure c’è solo il community manager, manca un team di sostegno che crede nel progetto e aiuta a definire le strategie; oppure non c’è un piano di coinvolgimento dei super user, anzi il più delle volte, non si sa neanche cosa sia un super user. Infine, può essere che non ci sia un piano di investimenti, necessari per avere il tempo di far crescere una community e di sperimentare.
Far crescere una community già florida
Chi ha una community che funziona, invece, spesso si trova nella “felice” situazione in cui non sa come gestirla, come farla crescere in maniera strutturata e in linea con le proprie prospettive di business. In questo caso, l’intervento è spesso focalizzato più sulla governance, sulla creazione di un modello che permetta non solo di individuare i super user ma di dar loro gli strumenti per contribuire attivamente alla crescita della community. In questo caso le attività che si vanno a fare sono quelle di sviluppare un piano di crescita per i super user (chi sono? quali attività gli affido?), un piano di recruiting (dove li trovo? come li riconosco? come li coinvolgo?), e un piano di ricompense (se si attivano, come li premio per il loro lavoro?).
Formazione sulle community
Infine a volte ci viene chiesto di intervenire per fare formazione, e anche qui possono esserci diverse esigenze. Alcune realtà si rivolgono a noi perché hanno necessità di un percorso che accompagni il team dedicato; altre vogliono formare i super user proprio per sostenere la crescita.
Alla fine di tutto questo spiegone c’è chi sbadiglia e c’è chi si esalta. Come sempre non produco mai vie di mezzo. Nel primo caso, mi spiace e chiedo scusa per essermi dilungata troppo, nel secondo caso invece rimando al sito per saperne di più, oppure ai nostri corsi di formazione. Anzi, non è vero, questo non lo dico a nessuno. Lo scrivo solo qui, perché se avete avuto la pazienza di leggere questo lungo post, magari vi interesserà.
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