
04 Nov Dalla sharing economy alla community economy: ecco perché è importante imparare a disegnare comunità
Pubblico un estratto dell’introduzione del libro “Community Economy” (Egea 2020)
Nel 2013 l’Economist portava in Italia la sharing economy. Allora si parlava di una nuova economia che prediligeva la condivisione del bene invece della proprietà e lo scambio invece dell’acquisto. Da allora molte cose sono cambiante e oggi che il Covid-19 ha messo in luce anche la fragilità dei servizi più famosi più che mai ci si interroga su cosa sia rimasto della sharing economy e della sua narrazione. Alcuni servizi sono cresciuti o comunque rimessi in discussione, altri invece sono entrati in crisi in maniera forse irreversibile, ma al di là dei singoli servizi certo si può dire che oggi la collaborazione non è pi solamente tra persone che condividono beni o servizi ma fra individui che partecipano alla costruzione di un brand (profit o non profit o, meglio ancora, ibrido) e alla progettazione della sua offerta. E’ la community economy l’evoluzione più interessante della sharing economy, un’economia composta da aziende, gruppi, luoghi che pongono al centro della loro strategia di business la community e così facendo trasformano mercati e organizzazioni. Community brand cioè marchi e organizzazioni che non lavorano più sull’ingegnerizzazione dell’offerta, sulla sua ideazione e produzione all’interno di un contesto industriale, ma sull’aggregazione della domanda, sull’ascolto delle sue esigenze, e sulla soddisfazione delle sue richieste. Organizzazioni che a partire da una proposta di valore aggregano persone che condividono un’appartenenza, dei rituali e delle tradizioni e un senso di responsabilità morale reciproco sviluppando una comunità che non è più strumento del marketing ma che diventa un valore strategico per l’azienda. Ne sono un esempio Gengle, Retake, ScuolaZoo, Rock’n1000, Friendz, Avventure nel mondo, Blablacar, ma anche tanti luoghi che nascono intorno a un’idea, a una passione, un bisogno e su quello costruiscono comunità
Attraverso una co-progettazione continua queste organizzazioni immettono sul mercato servizi che hanno già un pubblico di riferimento – perché sono l’espressione di quel bisogno – e come tali sono potenzialmente più competitivi degli attori tradizionali. Per servire queste nicchie e per favorire la loro produzione di valore il community brand non può utilizzare i vecchi modelli di gestione di un’azienda, ma deve ricostruirsi secondo una logica “abilitante”, non più lineare ma a piattaforma affidando ruoli e responsabilità ai membri e mettendo in atto canali di comunicazione che rendano i confini fra l’interno e l’esterno dell’azienda sempre più fluidi e permeabili.
Questo nuovo modo di fare impresa e di trattare con i clienti non è il vezzo di un momento ma è un segnale di un profondo cambiamento destinato a rimanere nel tempo, in quanto figlio di una trasformazione che è prima di tutto culturale e solo successivamente economica. Ha radici nella crisi sociale ed economica e nella trasformazione digitale iniziata dello scorso decennio. La prima ha reso evidenti nuovi bisogni e nuove nicchie di mercato, la seconda, introducendo un nuovo mezzo di comunicazione – i social media – ha trasformato non solo le nostre abitudini ma anche il nostro modo di apprendere e di comportarci. Questi, infatti, ci hanno dato l’attitudine e l’opportunità di essere al tempo stesso produttori, consumatori e anche attivisti e progettisti, cioè persone che rilevano un bisogno che dà origine a una frustrazione, una passione, una causa e decidono di impegnarsi per essi, o che aderiscono a un progetto altrui perché si identificano con esso. In questa fluidità anche il rapporto fra imprenditore e dipendente si sfuma, essendo entrambi parti di una organizzazione che si riconosce in una proposta di valore. Che il cambiamento sia prima di tutto culturale, quindi, è evidente nell’assunzione di ruoli un tempo contrapposti e che invece oggi ricopriamo alternativamente a seconda delle situazioni, ma anche nel fatto che il modello piattaforma viene adottato in diversi contesti e a partire da qualsiasi argomento. Ci sono community brand in ogni parte di Italia, nascono sul digitale, sul territorio, nei gruppi social, si riuniscono intorno a qualsiasi genere di passione, condizione, scopo, causa. E anche il concetto stesso di comunità rinnova in questi ultimi anni il suo significato: le aggregazioni di cui si parla non sono più mosse da interessi geografici, ideologici o di status sociale come un tempo, ma da interessi emotivi e di conoscenza che si esprimono, per lo più, e si mantengono attraverso il digitale, lasciando alle occasioni di incontro fisico il compito di rafforzare la relazione. In questo contesto anche la suddivisione fra comunità e community ha poco senso. Se il primo termine solitamente si usa per indicare un concetto di aggregazione più territoriale e basato su un senso di appartenenza che si rivolge più a valori tradizionali, il secondo serve a spiegare, solitamente, gruppi che si riuniscono sul digitale. Nel libro, invece, questa distinzione cade e i due termini vengono usati come sinonimi perché siamo a un nuovo stadio evolutivo del concetto di comunità che si muove fra analogico e digitale in maniera complementare e fluida.
Il cambiamento (e la sua necessità), inoltre, si è palesato ancora di più nell’emergenza Covid-19. Il lockdown ci ha tolto la possibilità di stare insieme e di relazionarci con gli altri, mostrando in maniera evidente quanto questo sia un bisogno fondamentale per la nostra sopravvivenza. Il desiderio di comunità si è espresso a livello di paese, nei momenti difficili in cui tutti si sono incontrati fuori dai balconi per farsi coraggio, ma anche nei condomini in cui per la prima volta ci si è uniti, cantando o organizzando la spesa, e con tante iniziative di solidarietà verso i più fragili, nelle donazioni agli ospedali. In questo momento il digitale ha svolto un ruolo fondamentale non solo perché ha agito come cassa di risonanza, ma soprattutto perché, forse per la prima volta, ha reso evidente la sua capacità di tessere relazioni. Il digitale diventa quindi il luogo dove poter accorciare le distanze se però le persone hanno motivo di incontrarsi intorno a interessi, valori, rituali comuni. È un’opportunità anche per chi vuole ripensare l’organizzazione delle aziende e il lavoro dei dipendenti. Il lockdown ha accelerato un altro percorso già in atto: il ripensamento del lavoro come bisogno dell’anima e non solo come attività produttiva. Lo smart working costringe a ripensare l’organizzazione aziendale non più per linee gerarchiche, ma per raggruppamento di senso, e la distanza fisica dei dipendenti impone di rinnovare le forme aggregative e di pensare a nuovi canali di comunicazione. Ecco che anche qui emerge evidente il bisogno di costituire piccole comunità che si aggreghino non più intorno a una mission aziendale lontana e poco condivisa, ma a nuovi interessi, e ridefiniscano i legami e le distanze.
Conoscere la community economy, dunque, è interessante per chi vuole fare impresa. Questo libro vuole essere soprattutto un manuale, una cassetta degli attrezzi per chi vuole innovare. Crediamo che oggi, dopo i tanti dibattiti e discussioni degli anni scorsi, ci sia bisogno di questo: non siamo più in una fase in cui si intravede il cambiamento, siamo nel cambiamento, e ci siamo in pieno. Siamo ormai in un momento in cui l’analisi delle esperienze altrui permette di non improvvisare, ma serve da guida per chi vuole cimentarsi nel lancio di un nuovo servizio sul mercato o nell’implementazione di un nuovo approccio nella sua organizzazione. Oggi, pur nell’incertezza di un tempo che non consente più di progettare e poi implementare, ma che chiede di procedere per continui tentativi, si può, anzi si deve, guardare alle esperienze altrui per acquisire maggiore consapevolezza. Per questo il libro è soprattutto una raccolta di casi e di interviste che speriamo permettano di offrire spunti e linee-guida su come progettare un community brand, il suo ciclo di vita, e sulla sua scalabilità e sostenibilità.