Creare luoghi e comunità: il caso di Cohub Milano

Creare luoghi e comunità: il caso di Cohub Milano

A due anni dall’apertura del Cohub, lo spazio voluto dal Comune di Milano per promuovere l’economia collaborativa, è tempo di bilanci. Anche perché la convenzione firmata con il Comune -che ci aveva permesso di gestire lo spazio – è ormai scaduta e per noi inizia una nuova fase. Così credo sia utile fermarsi a pensare – e a condividere – ciò che abbiamo fatto in questi due e anni e cosa abbiamo imparato, sperando che questo contributo possa aiutare a alimentare il dibattito sulla creazione di luoghi e di comunità.

Due anni di Cohub: cosa abbiamo fatto

Il Cohub ha aperto nel marzo 2016 con l’obiettivo di promuovere l’economia collaborativa attraverso incontri, formazione, e la connessione di diversi attori. Era uno spazio concesso ad uso gratuito per due anni a tre operatori di cui Collaboriamo era il capofila che l’hanno gestito con il supporto di Trailab-Unicatt e Desis-Polimi. Si trovava in Vicolo Calusca, un vicoletto nascosto ma ricco di storia in zona Darsena, nel mezzo di un quartiere popolare abitato, in prevalenza, da anziani, migranti e alcune famiglie. Un complesso circondato da un grande giardino interno, vissuto solamente come luogo di passaggio, in un quartiere che invece è caratterizzato da un’asfissiante movida e dall’assenza di zone di aggregazione. Una periferia in centro, insomma, dalle piene potenzialità.

Qui abbiamo iniziato a lavorare all’idea di dare un luogo agli attori dell’economia collaborativa. Solo il primo anno abbiamo organizzato più di 50 eventi fra corsi di formazione, incontri, dibattiti. Partecipavano persone di Alessandria, Trento, Terni, ma, finito l’evento o il corso, lo spazio rimaneva chiuso e vuoto. Non si faceva comunità.

Come fare? Come trasformare uno spazio in un luogo che aggrega e costruisce?

Il tempo, maledetto tempo. Non potevamo garantire una presenza continuativa, ma ci rendevamo conto che esserci poteva essere la chiave di volta.

Abbiamo deciso, allora, di aprire lo spazio sia in termini di orari sia di accoglienza.

Due start up della sharing economy, Sharewood e Zego. sono venute a lavorare con noi. Con loro dentro, il Cohub era aperto tutti i giorni almeno fino alle 19, e, con loro abbiamo anche iniziato a condividere risorse, conoscenze, progetti.

Dopodiché abbiamo messo in condivisione il bene più prezioso che avevamo e che non sapevamo di avere: lo spazio. Altro che formazione e consulenza. Le pratiche di sharing economy aveva bisogno di spazio dove riunirsi, lavorare, fare festa. Così il non esserci è diventato prezioso. Appena uscivamo, entravano Ospitami, Refugees Welcome, la social street, un gruppo che si riuniva per scrivere insieme e così via. Ogni volta il Cohub assumeva un colore, una forma e una funzione diversa.

E siamo diventati rumorosi. Quando i condomini hanno iniziato a chiuderci la porta del cortile durante i nostri eventi, abbiamo capito che si doveva fare qualcosa. E dunque: come trasformare il fastidio in opportunità? Come portare fuori tra i nostri vicini quello che raccontavamo dentro al Cohub? Fondazione Cariplo ci ha aiutato e grazie a un bando abbiamo lavorato con gli abitanti del vicolo portando nel condominio non i servizi collaborativi – come avevamo pensato all’inizio – ma il teatro, ma questa è Vivi Calusca, un’altra storia.

Oggi siamo qui. Lo spazio è chiuso perché la delibera sperimentale, grazie alla quale era stato promosso, non si è potuta prorogare. Ci siamo trasferiti in Tribò il coworking aperto da Sharewood a pochi passi da Vicolo Calusca. C’è ancora molto da fare, eravamo solo agli inizi, e ci stiamo organizzando per capire come continuare. Sarà qualcosa di diverso, perchè differente è la dimensione e la configurazione dello spazio, ma ci portiamo via l’esperienza e l’idea, forse un po’ presuntuosa, che adesso sappiamo un po’ di più come si fa a creare comunità, e come si potrebbe andare avanti.

Qualche riflessione (e come direbbero gli americani lessons learned).

Il bisogno non può essere sottointeso. Noi proprio noi che facciamo formazione su come si costruisce un servizio collaborativo, abbiamo iniziato a lavorare pensando che bastasse richiamare il tema della sharing economy affinché la comunità degli operatori si ritrovasse. Credevamo che fosse sufficiente organizzare la piattaforma (eventi, incontri) per far ritrovare le persone e coinvolgerle. Non è così. La comunità, anche se potenzialmente esiste già, va aggregata e coltivata a partire da bisogni semplici (in questo caso si è partiti poi dalla messa in condivisione dello spazio) che devono essere espliciti, riconosciuti e condivisi. Altrimenti difficilmente funziona.

Le soluzioni vanno co-progettate e adattate. Una comunità va creata sui bisogni delle persone che la frequentano non sull’idea di chi la crea. Ovvio ma non troppo. Ma non solo; le soluzioni vanno cambiate e adattate nel tempo. La comunità è fatta di persone che si muovono, cambiano, reagiscono. Aggregare persone intorno a uno spazio significa anche stare sempre attenti a quel che accade, provare, aggiustare se non funziona, osservare i cambiamenti e riprovare ancora. Esattamente come in tutti i rapporti umani in cui si investe.

Il tempo non è sempre denaro. Ci vuole tanto tempo per far crescere una comunità e questo, soprattutto all’inizio, non ha un ritorno economico chiaro e quasi mai soddisfacente. C’è un investimento iniziale in termini di tempo ma anche di impegno mentale ed emotivo che viene recuperato solo nel momento in cui si innesta il cosiddetto effetto rete, quando, cioè la comunità inizia a far da sola (quando ormai hai il calendario pieno e speri che nessuno arriva più a chiederti lo spazio:-) Ma per arrivare a questo punto ci vuole tempo, e bisogna dedicarcisi (non si può costruire comunità nei ritagli di tempo).

Lo spazio e ciò che ci sta intorno non è neutro. Immaginiamo il Cohub nel cuore di un centro commerciale: sarebbe stato lo stesso? Certamente no. Lo spazio e la comunità che lo frequenta si contaminano in maniera osmotica, adattandosi uno all’altro in maniera unica e irripetibile.

Il valore prodotto da una community è soprattutto relazionale: come tenerne conto? E’ una domanda che ci fanno anche le aziende quando gli andiamo a raccontare l’importanza di creare comunità anche fra i clienti. Come considerare il valore prodotto dal Cohub? Quali metriche utilizzare per misurarlo e come valorizzarlo affinché possa continuare a produrre risultati? Domande aperte a cui noi, purtroppo, non abbiamo avuto il tempo di rispondere. Oggi, infatti, il Cohub ha chiuso anche perché il Demanio chiede di mettere a reddito le unità immobiliari all’interno della cerchia dei Bastioni. Una comunità non produce valore economico, ma  questo non significa che non si possa immaginare un’offerta di servizi dedicata oppure forme di scambio che producono valore in forma di risparmio. Su questo c’è ancora tanto da sperimentare. Ma le soluzioni si trovano. L’importante è riconoscere la necessità di cercarle.