
29 Lug Come evitare l’approccio disinvolto di certe start-up Usa?
«La sharing economy è un termine riduttivo che confonde il confine tra imprese innovative tese a sviluppare risorse inutilizzate e ciarlatani che vogliono arricchirsi nottetempo. Dai “party casalinghi” non autorizzati alla compravendita di spazi nei parcheggi pubblici, la cosidetta sharing economy è più una questione di cupidigia che di altruismo».
Questo il succo di un recente intervento di Brad Chase, dirigente della Capitol Media Partners (agenzia internazionale di consulenza su temi legati a media e policy pubbliche), dal taglio assai critico su certe pratiche disinvolte del settore. Pur nell’ondata di giusto ottimismo per innovazioni di questo tipo, anche queste controversie meritano dunque di essere esplorate all’interno del dibattito e delle pratiche in corso (soprattutto in Usa).
Secondo l’editorialista, la stragrande maggioranza delle start-up del settore non rivelano «alcuna comprensione né rispetto del fatto che proprietà pubbliche e private esistono soltanto nel contesto della comunità e degli individui che vi partecipano, e neppure riconoscono che vendite, affitti o condivisione di prodotti e servizi è qualcosa che non può avvenire all’interno di una bolla a sé stante». Diversamente dai marchi consolidati tipo Coca-Cola o Nike che, pur nell’approccio da business tradizionale, tendono a costruire relazioni durature e a prestare attenzione a richieste e necessità dei clienti.
Si tratta del fenomeno “sharing, not caring” (condividere senza vero interesse) sospinto con forza dall’high-tech e dai new media, dove l’articolo di Fast Company sulle strategie “vincenti” di Airbnb – ampiamente su Collaboriamo.org la scorsa settimana – diventa lo stereotipo dell’imposizione di un branding generico e disattento alle questioni più complessive, dimenticandosi fra l’altro di ricordare le tante controversie legate alla stessa Airbnb.
L’articolo prosegue spiegando che ovviamente nelle metropoli odierne a nessuno va di stare in fila magari per ore al botteghino o alla stazione di servizio oppure di sudare per trovare una sistemazione a buon mercato per la notte, né di guidare in tutto il quartiere prima di beccare un parcheggio. Eppure accettiamo queste situazioni perché sono (e siamo) parte della società e cementano i rapporti con altri esseri umani – senza dimenticare che fare la fila per il caffè non di rado è un buon modo per creare nuove amicizie.
E se la «violazione di questo contratto sociale può infastidire, appropriarsi del denaro dei consumatori è un offesa ben più seria: il procuratore generale di New York, Eric Schneiderman, sta conducendo un’esasperata battaglia contro l’esercito di consulenti politici e mediatici foraggiati dai capitali di Silicon Valley». Il riferimento è alle diatribe anche feroci sulle regolamentazioni del settore, auspicate da esponenti pubblici come il primo e invece respinte per lo più dai secondi. E alla necessità di arrivare a compromessi accettabili per tutti, percorso in cui sono impegnate ad esempio aziende quali TaskRabbit e BlaBlaCar, «che abbracciano il consumo collaborativo, cercano la fiducia del pubblico e non si oppongono a regolamentazioni basate sul buon senso».
Si tratta insomma di mettere a nudo una certa disinvoltura imperante e la mancanza di attenzione per il tessuto sociale che sembrano caratterizzare buona parte (non tutte) queste start-up. Lo chiarisce ulteriormente la conclusione del pezzo: «I giovani imprenditori innamorati della sharing economy devono fare un passo indietro e riflettere su cosa s’intende davvero con “sharing”. Come dicevano i cartoni animati per bambini, “sharing is caring.” Se ciò aveva senso nei giorni spensierati dell’infanzia, ancor più lo ha oggi».